martedì 26 marzo 2013

Un atterraggio sicuro


La sveglia di mio padre pigolava dall'altra parte della casa. Le quattro del mattino. Dopo una notte passata a svegliarmi ad ogni ora, tirarsi su dal letto non era stato troppo complicato. Rimuginavo ancora sull'ultimo racconto letto la sera prima, con la partita dell'inter in sottofondo a volume bassissimo.
Fuori un leggero vento da cui non volevo farmi ingannare. Abitare al terzo piano non è indicativo per stabilire se il vento è forte o no.
Doccia ben calda e tazza di latte ben freddo. Non c'era tempo per un caffè, lo avrei preso al bar dell'aeroporto.
Per strada, solo il Kangoo azzurrino di mio padre che si contendeva la solitudine con qualche sparuto furgone zeppo di operai pronti per un'altra massacrante giornata di lavoro.
E io andavo a Roma, per sfruttare due biglietti che altrimenti sarebbero andati persi. Una vacanza, se vogliamo, pianificata in fretta e furia, ma con una precisione da piano quinquennale sovietico.
Caffé? Si, caffé. Dopo il check-in ed il torpore incipiente che mi stava facendo ricordare, ora, la notte insonne, il caffè sarebbe stata una cosa buona e benedetta. Il bar iniziava a stiparsi di gente, donnone vestite volgarmente con un mix di latex e pelle nera, agghindate come matrone, appesantite dai gioielli grossi come patacche; uomini infagottati nei loro Loden grigio topo in tinta coi baffi e la Gazzetta ancora croccante di tipografia sotto il braccio a sorseggiare i loro caffè con quel dito mignolo puntato verso il cielo; valigie di ogni stazza e misura, piene come otri pronte ad esplodere ad un minimo urto contro le cerniere. Il mio tascapane ed io sembravamo degli sprovveduti zingari dell’aria ed occupavamo uno spazio infinitesimo, lontano dal bancone. Forse per questo avevo bevuto il caffè tutto d’un sorso, scottandomi la lingua e facendo in modo di andaremene di lì il più presto possibile. I profumi carichi di sfumature pesanti delle signore impellicciate iniziavano a saturare l’aria e renderla irrespirabile, lo stretto andito del bar stava diventando soffocante, la sciarpa cominciava a pungermi sul collo. Cattivo segno, presago di un nervosismo che all’inizio di una giornata che si prospettava tranquilla ci sta proprio male. E neanche un buon modo, quello, di gustarsi un caffè, perché il rito del primo caffè ha qualcosa di sacro, irripetibile durante il resto della giornata. Man mano che scende verso lo stomaco si ha la sensazione che tutto il corpo si apra verso una nuova scoperta, si ha la percezione fisica che la mente stia più larga, lì dov’è. Rovinarsi questo momento, potrebbe avere ricadute pesanti sul resto del giorno. Se non si è abbastanza pronti ad evitare che ciò accada.
Fortuna che ero già tutta proiettata alle mostre che mi ero prefissata di visitare; alle librerie che avevo deciso di saccheggiare; alle fotografie ed ai graffiti che sicuramente avrei incontrato per strada.
-Ciao papà;

-Ciao e chiama quando arrivi;

-Si, ti chiamo. Vi chiamo.

In effetti eravamo arrivati troppo presto sull’orario di imbarco. In attesa della chiamata avevo deciso di sfogliare una rivista trovata su un seggiolino, girando le pagine con enorme fatica. Neanche leccarsi le punte delle dita serviva a qualcosa. La qualità della carta era fin troppa per una rivista da viaggio. Il contenuto era peggio che bere di corsa un caffè. Ma come si fa a stampare certe cose e su carta patinata poi? Come dire che ti servono del fango su un piatto di Limoge. È sempre fango. Ma su un piatto di Limoge.
Un'altra cosa che bisogna evitare accuratamente di prima mattina: leggere spazzatura; anche solo intercettare un titolo che faccia venire il voltastomaco, un occhiello farcito di ovvietà riprovevoli.
Stavo rischiando grosso e la voce che chiamava i passeggeri invitandoli ad imbarcarsi correva in mio soccorso.
L’aria fresca del mattino era ancora più piacevole dopo aver passato del tempo in una sala d’aspetto calda come una fornace e semibuia. Mi gustavo passo dopo passo il breve tragitto verso l’aereo incurante delle occhiatacce degli addetti alla pista.
 
Benvenuti su questo volo Alitalia. Siete pregati di spegnere tutti i dispositivi elettronici e di mantenere le cinture allacciante fino a quando l’apposito segnale verrà spento.
 
Obbedisco, tanto il cellulare non lo avevo nemmeno acceso e se tra i dispositivi elettronici c’è anche il cervello, nessun problema, con la sveglia antelucana, avrei spento anche quello.
Nonostante il sonno, però, mi accorgevo di essere sensibile ad ogni stimolo esterno. Soprattutto, avevo avvertito precisamente quell’attimo in cui le ruote dell’aereo si erano staccate da terra. Mi ero sentita più leggera anche io, come se mi fossi liberata di un peso e avessi spiccato il volo da sola.
-Posso offrirle qualcosa?

-Si, grazie. Un caffè.

La gentilezza sussiegosa dello steward si schiantava contro la brodaglia insipida che aveva avuto la superbia di chiamare caffè. Non importava, in quel momento non importava niente. La sensazione del bicchiere caldo contro la mano fredda scioglieva ogni disappunto e trasmetteva a tutto il corpo un piacevole tepore, accompagnato dentro le viscere dalla brodaglia liofilizzata che scendeva giù giù. La sorseggiavo lentamente, per non perdermi nulla di quegli attimi.
Dovevo andare in bagno, già consapevole che mi sarei trasformata nella donna ragno, totalmente devota al massimo dell’equilibrio che il mio fisico massiccio poteva permettermi per muovermi senza fracasso in quell’abitacolo stretto.
Ero riuscita nel mio intento; nonostante la ciccia e la panza conservo ancora una certa agilità che sta tutta nella totale e piena consapevolezza delle mie dimensioni.
Gli steward stavano ancora armeggiando intorno ai loro carrellini, occupando l’intera larghezza del corridoio; mi trovavo bloccata sul fondo dell’aereo.
-Guardi, signora si metta qui, così riusciamo a passare. Vede, qui è tutto un grande gioco di Tetris, fatto di incastri.
Avevo sorriso per cortesia e dentro di me pensavo: Speriamo solo di non fare come i mattoncini del gioco, che precipitano dall’alto e si schiantano gli uni sugli altri, disintegrandosi a vicenda.
Quando si viaggia in aereo, avevo scoperto, si vivono esperienze che è un peccato farsi scappare perché tutti presi dalla smania di stare in cielo il più breve tempo possibile con il terrore vibrante di precipitare da un momento all’altro.
Le virate, che ai più fanno presagire la fine del mondo, sono in realtà un’esperienza quasi mistica. Da vivere con tutta l’intensità di cui si è capaci. Travelgum permettendo.
Una virata a destra, ti ritrovi a strapiombo sulla terra, individuando chiaramente le increspature delle montagne, i tagli netti che le caratterizzano. E poi vedi i campi coltivati, che sembrano tutti ordinati e ben pettinati, di un verde intenso e policromo.
Una virata a sinistra, ti ritrovi in faccia l’orizzonte azzurro schizzato di pesca di un giorno che sta per maturare definitivamente.
Un’inclinazione più accentuata e il sole sopra le nuvole incendia di giallo tutta la cabina, illuminando le teste addormentate dei viaggiatori che ti stanno davanti ed i giornali con un orecchio mollemente adagiato verso l’interno, sulla pagina spalancata.
Dopo essere tornati in asse e guardando in basso, si ha ancora più viva la sensazione di scivolare via sopra una bacinella piena d’acqua dove le nuvole sembrano batuffoli di cotone che galleggiano e piano piano si sfilacciano per dissolversi o si raggrumano in un bozzolo.
Mi gustavo tutte queste cose, facendole sciogliere dolcemente sotto la lingua, come una galatina.
 
Informiamo i signori passeggeri che tra poco atterreremo all’aereoporto di Roma. Vi preghiamo di rimanere con le cinture allacciate, di chiudere il tavolino posto sullo schienale davanti a voi e di riportare il vostro schienale in posizione verticale. Vi avvertiamo, inoltre, che da ora in poi sarà vietato utilizzare qualsiasi dispositivo elettronico per non interferire con le strumentazioni di bordo.
 
Roma. La vedevo e la amavo con un trasporto folle e disumano. Dall’alto tutto sembra più calmo e armonioso di quanto non sia da vicino.
È singolare come in determinati frangenti si possa pensare tutto e il contrario di tutto. Volevo Roma e la vedevo simmetrica, pulita e razionale; ma pensavo alla Metro, all’incrocio di piazza Esedra, al piazzale davanti alla Stazione Termini e non potevo fare altro che rassegnarmi alla follia dei clacson impazziti; all’ostinazione dei tassisti per ficcarsi in mezzo al traffico; agli odori nauseabondi di piscio, vomito e sporcizia che si levano dagli angoli, dalle cortecce degli alberi e da ogni filo d’erba. 

Dal finestrino del treno Express che dall’aeroporto mi avrebbe portata in città vedevo correre campagna e palazzi, palazzi e campagna in un alternarsi che piano piano è diventato un confondersi. Fino a quando la campagna è finita e sono rimasti soltanto in palazzi che si sono mangiati ogni metro di terra.
La città grande, la città eterna che sembra cibarsi di se stessa per continuare a vivere ed ingrassare. Per noi provinciali è un concetto che non finisce mai perché abbiamo un senso più ristretto della compiutezza, che in qualche modo ci rassicura e ci fa percepire il mondo un posto meno dispersivo. E quando ci troviamo davanti una sconfinatezza maestosa ci sentiamo più piccoli di quanto già non siamo ed infinitamente vulnerabili, come se il guscio dei nostri piccoli paesi si fosse rotto e noi riuscissimo per la prima volta a comprendere il significato profondo dell’aggettivo “grande”.
Avevo tre mostre da visitare tra storia e onirismo. Una era storia che apparteneva ad ogni mia fibra ideale perché prima era appartenuta a mio nonno e poi a mio padre ed ora a me che non sapevo più dove farla spurgare, perché i tempi allora erano crudi, adesso marci senza nemmeno il tempo di maturare.
Ero commossa da quello che vedevo, pur senza averlo vissuto mai se non nei racconti che mi erano stati tramandati o attraverso i libri che avevo letto. Tutto, donne, uomini, bandiere, diari scritti con calligrafie minute, pulsioni, emozioni, slanci e pugni al vento rappresentavano quello che Pessoa era stato in grado di sintetizzare in un’unica frase: una sola moltitudine.
C’era così tanto di me lì dentro che per un pò avevo perso la cognizione del tempo, tutta persa dietro fotografie che si rincorrevano, filmati d’epoca e cimeli storici da fare accapponare la pelle.
Anche la cornice era bella: un parco incassato in mezzo a funerei palazzoni, neri di smog e tristezza. C’erano gli alberi che ti chiudevano al mondo barbaro ed un laghetto muto, chiazzato di muschio. Un gatto tigrato sembrava essere il padrone di casa, per nulla spaventato dall’andirivieni faceva gli onori come prescrive il galateo, venendo anche a sedertisi accanto sulla panchina di legno a prendere un pò di buon sole con te.
Per raggiungere le altre due mostre avevo deciso di fare una strada diversa se non altro per umanizzare il mio percorso e disinfettarlo un pò dal ciarpame turistico disordinatamente affastellato qua e là. Le bancarelle dei libri sotto gli alberi di Piazza della Repubblica erano ancora chiuse; soltanto qualcuna stava timidamente aprendo, con lentezza messicana, mentre io già pensavo a come affrontare la discesa di via Nazionale per raggiungere il Palazzo delle esposizioni.
Federico la sera prima mi aveva illuminata.

-C’è una mostra sul Messico;

-Messico?! Dimmi, dimmi!

-Lo sapevo che ti saresti esaltata, per questo te l’ho detto;

Per la verità, lì di mostre sul Messico ce n’erano due. O meglio, una era sul Messico, su Teotihuacan, la città degli dei; l’altra su un messicano visionario, Carlos Amorales.
Davanti a me, alla biglietteria, due anziane signore facevano tante ed inutili domande alla commessa sul punto ristoro, sullo chef, sul menu, sulle ordinazioni. Sembrava che della mostra non potesse importargliene di meno. Sembrava che fossero lì per lo chef e per i suoi piattucoli scarabocchiati con qualche salsetta salata nel sapore e nel prezzo. Erano tutte orgogliosamente fasciate nelle loro preziosissime pellicce. Ho contato solo sulla sciarpina di una, ben dodici code di visone. Dodici animali morti, per una sola sciarpina avvolta intorno al collo rugoso di una vecchia borghesuccia che andava al Palazzo delle esposizioni per interessarsi del punto ristoro. Abbastanza per fare tesoro ed innescare una girandola di riflessioni più o meno serie, più o meno politiche, più o meno letterarie perché le signore in questione, prima o poi, finiranno dentro qualche mio racconto.
Pagando il mio biglietto per le due mostre, già mi guardavo intorno per capire da dove cominciare. Avevo letteralmente la bava alla bocca. Proprio nel senso più reale del termine. Era libidine pura, senza l’onta del peccato carnale perché pur sempre di libidine culturale si trattava. Ed è impagabile il piacere che se ne trae, anche fisico, da queste cose. Dal riempirsi gli occhi di cose lontane, arrivate fin lì dall’altro capo del mondo con addosso secoli di storia, sature di significati, zuppe di messaggi che al visitatore attento e consapevole arrivano in faccia con la violenza e l’adesione di uno straccio bagnato.
Mi perdevo nelle stanze, in mezzo alle maschere zoomorfe ed alle statuine antropomorfe; ai gioielli in pietra verde ed alabastro; ai braceri votivi tra la cosmologia ed i rituali funebri. C’erano facce, che sembravano guardarti. Con una, in particolare, mi ero incaponita destando parecchia curiosità tra gli altri visitatori e più di un sospetto tra gli addetti alla sorveglianza. Nell’incavo degli occhi, agli estremi opposti, mani sapienti avevano scavato quattro piccole circonferenze, due per occhio. Se mi spostavo verso sinistra, le circonferenze di destra sembravano definire uno sguardo torvo, lontano da me, mentre quelle di sinistra mi puntavano dritta; se mi spostavo verso destra, succedeva la stessa cosa, a circonferenze invertite. Ho fatto più prove, spostandomi da sinistra a destra continuamente, stupendomi di quella meraviglia e godendone come una bambina.
Perché il sapere, sotto sotto, non è altro che questo: incuriosirsi e stupirsi. Sempre.
Sul fondo del gigantesco salone su cui gravavano luci basse e soffuse per ricreare un certo ambiente cupo e quasi a contatto con il divino, si accendeva maliziosa una tenda di fibre ottiche.
Era lì che finiva il sacro di Tláloc e Quetzalcóatl e cominciava il profano di Carlos Amoral.
La stanza era tutta una pioggia di cocci neri e appuntiti, tenuti sospesi da lenze legate a ganci fissati al soffitto. Drifting star si chiama l’installazione. Stella alla deriva. E proprio qualcosa di esploso e smarrito sembravano ricercare la traccia quei frammenti lucidi che riflettevano la luce a incandescenza della stanza. Ne ero rimasta colpita al punto da sentirmi mormorare “che meraviglia”. Non era da me entusiasmarmi per un’opera d’arte contemporanea, meno che meno per un’installazione. Ma in quel preciso momento mi era tornata alla mente una cosa che mi aveva detto un amico. Gli avevo chiesto che cosa avrebbero dovuto rappresentare le opere di arte contemporanea e lui mi aveva dato una risposta illuminante: non vogliono rappresentare nulla, solo trasmetterti un’emozione. Cavolo quanto mi era tornata utile quella frase stando in piedi nella profondità della stanza a contemplare la Stella alla deriva. E ancora di più mi ronzava in testa andando incontro ad uno sciame impazzito di lepidotteri di stoffa che avevano invaso, coi loro corpicini neri e leggeri, ben tre stanze. Erano farfalle attaccate lungo tutte le pareti a formare uno sciame insieme ordinato e confuso; quelle attaccate vicino al bocchettone per il ricircolo dell’aria muovevano anche le ali. Me ne stavo col naso per aria a contemplare questa onda irregolare frastagliare le pareti. Sembravano vere ed io mi sentivo, invece, come catapultata dentro una favola: una specie di Alice nel paese dei lepidotteri. L’installazione si chiama Black cloud, nuvola nera che di per sé dovrebbe dare un’idea oscura, un messaggio pessimista. Invece io mi sentivo così bene lì dentro, come se il tempo scivolasse via assieme alle ali delle farfalle e si perdesse negli angoli morti della sala. 

Cercavo di riposare un pò, seduta sulle scale davanti al Palazzo, addentando un panino al prosciutto e ripensando ora alle farfalle, ora agli spigoli taglienti della stella in frantumi, ora alla maschera del Signore dell’aldilà. Mi sembrava di aver vissuto un sogno e me lo rimescolavo nello stomaco assieme alle molliche di pane masticate per tenermelo più a lungo possibile dentro.
La gente camminava presa da una fretta urbana a me del tutto sconosciuta. C’erano turisti infagottati e altri che nemmeno in agosto. Li guardavo estasiata perché quelli si portano appresso il clima di casa loro. Se vivono in nord Europa, il nostro freddo gli fa solo il solletico ed eccoli, in pieno gennaio in una giornata per niente clemente, calzoncini corti e magliettina, ai piedi sandaletti di gomma ed in mano un’immancabile macchina fotografica, per scattare foto a qualsiasi cosa che abbia un sapore italico, anche lontano, anche stantio. Se vivono al sud, nella canicola, li trovi intabarrati in pesanti indumenti che gli conferiscono le fattezze goffe dei pupazzi di neve: le mani rigorosamente sigillate dentro muffole di pile; la testa ben protetta da uno spesso cappello di lana e se non basta, anche il paraorecchie di pelouche; sciarpa arrotolata varie volte intorno al collo fino a che non resti soltanto un piccolo spazio per gli occhi, necessario il giusto per non andare a sbattere contro cose e persone.
Per me che vengo dal sud doveva essere un freddo freddo, ma io sono cicciona e mi muovevo parecchio. Non avevo neanche il tempo per rendermi conto se stessi sentendo freddo o caldo. Il mio tempo stava per finire e mi mancavano ancora le librerie, per fare incetta di letture e per il piacere di passare qualche ora nel mio regno prediletto.
La libreria è un posto da frequentare con molta attenzione. Ti ci puoi perdere dentro, scivolare tra gli scaffali dimenticandoti di ogni cosa. Quando sei lì tutto ti incuriosisce, ogni titolo, ogni sezione. Saresti disposto anche a leggere un giallo, nonostante non sia il tuo genere e poi ti viene quella curiosità smaniosa di vedere cosa comprano gli altri e farti un’idea dei loro gusti e compararli coi tuoi e vedere chi è il più impegnato tra voi. Ci si trasforma in bambini che gattonano e spalancano gli occhi davanti alle meraviglie del mondo appena scoperto; ci si muove lentamente per sentire l’odore della carta, per accertarsi di leggere bene tutti i titoli. Nonostante le liste preparate a casa, non si sa mai che qualche altro libro non possa attirare l’attenzione. In tutto questo ci ritroviamo alla cassa con le braccia indolenzite ed una vena di eccitazione; un’adrenalina che ci esaurisce e ci inietta nelle vene il siero della felicità.
Fuori nel frattempo il tempo era corso via. Lo zaino che mi ero previdentemente portata si era riempito di libri e mi faceva da zavorra, croce e delizia. 

Si erano fatte le quattro del pomeriggio, dovevo tornare. Con i piedi piagati ed ormai incapace di produrmi in una camminata simmetrica avevo raggiunto il binario 28 della Stazione Termini. Ci avevo messo davvero un’eternità; così malridotta non riuscivo ad aumentare la mia andatura. Se avessi perso il treno, mi sarebbe toccato rimanere in piedi per altri trenta minuti ed aspettare il successivo, cosa che non contemplavo minimamente e che con un lampo di spirito di sopravvivenza allontanavo da me provando a forzare il passo, per il definitivo martirio dei miei poveri piedi.
Concentrandomi solo sulla costanza di buttare un piede davanti all’altro c’ero riuscita ed avevo trovato anche un posto a sedere. Ero esausta, mi mancava la forza per parlare, volevo solo impugnare la mia macchina fotografica e scattare qualche foto ai graffiti lungo la linea. Roma mi passava un’altra volta sotto gli occhi, al contrario.
Qualcosa mi disturbava. Un odore pungente, quasi nauseabondo; sembrava uscire dalle viscere profonde di qualcosa, ma non capivo. Pensavo al riscaldamento del vagone: se i filtri non si cambiano con continuità finiscono per puzzare. Ma non era nemmeno quello l’odore, perché l’odore dei filtri otturati è simile a quello della fogna. Questo era diverso, mi portava istintivamente a sollevare il naso in cerca di aria salubre, come se si volesse tenere la testa fuori da un barile di merda. Facendo le mie indagini con discrezione avevo capito che non erano i filtri, né l’avventatezza di qualcuno che avesse osato togliersi le scarpe o che avesse sudato fuori dal proprio corpo un raccapricciante sudore acido. No, era il distinto signore seduto davanti a me che leggeva in maniera talmente assorta il suo quotidiano da essersi dimenticato di chiudere la bocca dalla quale usciva un tanfo di roba morta che finiva, senza speranza di cambiargli il corso, proprio davanti al mio naso. Non potevo nemmeno sperare che scendesse perché il treno non faceva fermate prima di Fiumicino. L’unica cosa che mi rimaneva da fare era girarmi di lato, verso il finestrino e portarmi la sciarpa su naso e bocca, per filtrare l’aria fetida e respirarne di pulita.
L’aeroporto era stranamente deserto. C’era solo qualche viaggiatore che spingeva in avanti trolley di dimensioni spropositate; altri biondissimi e magri erano stravaccati a terra leggendo, sorseggiando una birra o dormendo coperti coi giubotti, tutti armati da una nordica pazienza ad aspettare il loro volo.
-Corridoio o finestrino?

-Corridoio, per favore;

-Ecco a lei, buon viaggio;

-Grazie;

C’era da aspettare ed i miei piedi non chiedevano di meglio. Col mio carico di libri avevo passato i controlli e poi mi ero buttata su un sedile in acciaio senza imbottitura davanti al gate.
 
Airmalta vi da il benvenuto su questo volo per Reggio Calabria e Malta. Siete pregati di riporre il bagaglio a mano sotto di voi o sulle cappelliere sopra di voi.
 
L’aereo non si decideva a decollare, ma il ritardo di un aereo non è quello di un treno. Voglio dire, si sopporta meglio, se non altro perché il viaggio dura di meno. Insomma, nessuno faceva caso al fatto che non ci si schiodasse da terra. E poi, si sa, i viaggi al ritorno sono privi dell’adrenalina dei viaggi all’andata e ci si rifugia in un sonno riparatore, tra le pagine di qualche rivista o tra le righe di un libro. Così immersi, quasi nessuno fa caso al fatto che piloti e steward, hostess e addetti alla pista temporeggiano. A meno che non siano loro stessi a dirtelo.
 
Volevamo informarvi che partiremo con circa quindici minuti di ritardo. A Reggio Calabria c’è una pioggia molto forte e la pista non è agevole per un atterraggio in condizioni critiche. Aspettiamo di saperne di più dalla torre di controllo e vi faremo sapere al più presto. Ci scusiamo per il disagio.
 
Passa del tempo, fintanto che non te lo fanno notare non ci fai caso, ma poi inizi a smaniare sul tuo seggiolino chiedendoti che diavolo mai ci sia di tanto proibitivo. Due gocce d’acqua? A Reggio, poi.
Tanto valeva non perdere la calma, sarebbe andato tutto a mio sfavore e non avevo nemmeno la forza di reagire. Bastava aspettare. Bob Marley diceva che ogni cosa si sarebbe messa a posto. Me lo ripetevo come un mantra. E intanto leggevo.
Accanto a me una signora che puzzava di pasta e ceci, invece, aveva iniziato a dare segni di irrequietezza chiedendosi e chiedendo quando saremmo partiti, arrivando addirittura a molestare un bambino sui quattro, cinque anni che nella sua più spensierata innocenza entrava in cabina di pilotaggio facendo proprio la sciagurata domanda alla crew.
Già non era proprio tra le mie corde da quando, saliti a bordo, mi aveva intimato di non allacciarmi le cinture perché tanto lei sarebbe dovuta uscire a riporre il suo cappotto nella cappelliera, e poi mi aveva ancora chiesto di uscire per l’urgenza di andare in bagno, riversandosi addosso con quelle sue tette dure e spigolose.
Ora, non che io sia una persona intollerante, anzi, mi considero piuttosto flessibile ed accondiscendente; mi piace usare la diplomazia e prediligo il dialogo, ma in quella circostanza il mio dialogo consisteva in un ininterrotto monologo interiore nel quale riservavo parole non proprio caste e non proprio pure all’indirizzo della biondina con gli occhiali e con la faccia da ebete che ci teneva a precisare di lavorare in banca, ma non in una banca qualsiasi, no, in una banca molto importante.
 
Volevamo avvisarvi che tra qualche minuto partiremo, ci scusiamo per il ritardo.

Meno male, mi dicevo, Bob Marley aveva ragione.
Per quei quaranta minuti che mi separavano da casa, da una doccia calda e da una cena sostanzionsa Scott Fritzgerald, comprato proprio quella mattina, mi avrebbe tenuto compagnia coi suoi racconti dell’età del Jazz.
Il volo non era tranquillo, perché nessuno di noi sapeva dove saremmo atterrati. Lo steward ci aveva ventilato l’ipotesi di atterrare a Lamezia Terme, qualora a Reggio le condizioni fossero ulteriormente peggiorate, poi invece ci aveva rassicurati che saremmo atterrati a Reggio. Di questa lotteria, presa dai racconti, mi ero totalmente disinteressata. L’importante era atterrare a casa o lì vicino.
Lamezia o Reggio, Reggio o Lamezia?

Scusateci ancora, siamo in costante contatto con la torre di controllo di Reggio Calabria. Da lì ci giungono notizie poco confortanti. La pista di atterraggio è completamente allagata ed è impossibile drenare l’acqua. Le condizioni non permettono un atterraggio sicuro. Non disponiamo dei permessi necessari per uno scalo a Lamezia Terme. Il comandante ha deciso che questo volo atterrerà direttamente a Malta.

Nel momento stesso in cui una notizia potrebbe scombussolarci totalmente, ci si aspetta che intorno a noi si levino alte grida, che qualcuno si faccia prendere dalle convulsioni. Ci si aspetta di sentire parole grosse all’indirizzo della compagnia, dei piloti e dei poveri assistenti di volo. Invece in quel frangente, non sentivo nulla, solo un leggero brusio. La notizia aveva ammutolito tutti, anche il bambino che fino a poco tempo prima lanciava gridolini indispettiti e finti piagnistei.
Scott Fritzgerald, comprato in una copia rilegata male e tagliata peggio, mi si era impallidito tra le mani. La piacevole curiosità che si era impadronita di me andando avanti nella lettura era scivolata sotto il sedile per andare a perdersi tra i piedi dello steward che con il citofono in mano iniziava ad impappinarsi nel suo italiano di maltese. Provavo compassione per lui che ad un certo punto non sapeva come proseguire nel giustificare quella decisione, ma con la rassegnazione che tanto, quello che doveva dire lo aveva detto e stare lì a balbettare, forse, non lo avrebbe aiutato a gestire la situazione. Nel frattempo non sapevo che sentimenti provare per me stessa perché ne provavo tanti e tutti in una volta. Rimanevo con il libro tra le mani ed il dito tra le pagine per non perdere il segno e mi guardavo attorno un pò attonita. In un barlume di lucidità avevo sentito che una stretta allo stomaco mi aveva fatto provare ripugnanza per Fritzgerald che ficcavo senza troppi complimenti nel tascapane, alla rinfusa e perdendo il segno.
La doccia, la cena ed il sonno dei giusti mi ballavano davanti facendo pernacchie, svolazzando come i lepidotteri di Amoral e lasciando leggeri sbuffi di vapore nell’aria.
Mi stropicciavo continuamente gli occhi con le dita, sperando che si trattasse di un’illusione e mi sforzavo con tutta l’energia che mi era rimasta di ricacciarmi nello stomaco quel nodo che si stava impossessando della gola. Volevo piangere.
Intanto la signorina bionda accanto a me, appena appresa la notizia, mi aveva subito chiesto per l’ennesima volta di farla uscire per parlottare con certi conoscenti seduti più lontano. Rientrata al suo posto aveva iniziato a dipingere affreschi nefasti sulle conseguenze di questo viaggio. Ci avrebbero lasciati in aeroporto fino al giorno dopo, al freddo e al gelo; saremmo rimasti senza bere e senza mangiare; si sarebbero dimenticati di noi. Decisamente, non conosceva Bob Marley.
Con le sue elucubrazioni tormentava l’altro passeggero, quello vicino al finestrino, che rimaneva impassibile e felicemente rassegnato, forse stuzzicato dall’idea di un soggiorno notturno a Malta durante il quale avrebbe potuto fare una puntatina al Casino.
Dal canto mio avevo sempre rifiutato l’idea di andare a Malta per una vacanza. Sarà perché d’estate è troppo scontato andarci e soprattutto troppo affollato per i miei gusti misantropi. Vivevo quel dirottamento a fin di bene come il compiersi di un contrappasso. Mi sarei dovuta dare una risposta all’ostinazione di non voler visitare l’isola e me la sarei dovuta dare nel più brutale dei modi: costretta a metterci piede, contro la mia volontà. 

Uno scatafascio ed uno stridere di freni mi diceva che eravamo arrivati. Dentro l’aeroporto piccolo e pulito non c’era quasi più nessuno a parte noi “esuli” ed un playmobil ad altezza uomo travestito da pirata con tanto di benda sull’occhio. I negozi erano tutti chiusi e gli addetti si sbracciavano per tenerci a bada, come se fossimo una mandria di vacche disorientate. Sembrava di essere precipitati in un aeroporto militare di qualche paese africano afflitto da una guerra civile, con l’unica differenza che qui la globalizzazione aveva piantato radici ben solide.
-Mamma?

-Sei atterrata, finalmente?

-Si mamma, sono atterrata a Malta…Mamma…mamma?!

-Come, a Malta?!

-A Malta. Ti richiamo.

Le gentili signore che ci avevano presi in consegna ci istruivano sulla nostra sorte con la voce roca dei mastini napoletani: ci avrebbero trasferiti in albergo per la notte; la sveglia sarebbe suonata alle quattro; il bus ci avrebbe riportati in aereoporto alle cinque; il nostro volo sarebbe partito alle sette.
Albergo, quattro, cinque e sette.
C’era una ragazza con un giubbino idrorepellente rosa e degli stivali grigi di pelo ai piedi che smaniava come posseduta, dando fondo a tutti i suoi più bassi istinti barricaderi. Se la prendeva con tutti per il mancato atterraggio a Reggio e sbraitava con qualcuno in Italia nel suo Blackberry ton sur ton col giubbino, trascinandosi dietro una valigia griffata alta quanto lei. Sbraitava in aereoporto, sbraitava sul bus e sbraitava anche nella hall dell’albergo senza la possibilità che qualcuno le contrapponesse degli argomenti definitivi per zittirla una volta per tutte. Avrei voluto che si trovasse in uno di quei reality show in cui bisogna televotare per eliminare un concorrente particolarmente antipatico. Invece era lì, con il suo verso di quaglietta a sputare veleno su tutti, facendomi vergognare di appartenere al genere umano ed acuendo la mia già critica misantropia.
Fuori era una nottata fredda, con un vento costante, non troppo forte, ma gelido. La Valletta piombata nel buio interrotto da lampioni giallo aranciato mi ricordava Eastbourne nell’East Sussex con le sue stradine ordinate ed i semafori che funzionavano anche a tarda notte. Piccoli cottage bianchi, separati dalla strada con un piccolo cancello basso mi ricordavano che Malta è stata colonia inglese e quell’ordine urbano, quella simmetria logica ne erano esattamente il frutto. Ma Malta è stata anche molto altro percui il rigore britannico non è così rigido. Molte cose mi facevano sospettare un mix niente affatto da disprezzare. Vuoi vedere che quasi quasi mi piace, pensavo.
Persa nei miei pensieri ed attenta a sfruttare i pochi sprazzi di luce nel buio per vedere qualcosa non avevo fatto caso di essere arrivati in albergo. Mi risuonavano ancora in testa le speranze di una ragazza con cui avevo iniziato a parlare in aeroporto, che con dolcezza si augurava che il bagno, almeno quello, non fosse in comune e si preoccupava che lì dove ci avrebbero portati, almeno ci fosse stato un pezzo di sapone per lavarsi.
Benvenuti al Corinthia Palace Hotel. Cinque stelle gold anticipate dalla piccola riproduzione di un giardino alla francese con una fontana zampillante al centro accanto alla quale si sviluppavano due morbidi corridoi di aiuole perfettamente tagliate che finivano sotto un patio porticato, l’entrata dell’albergo.
Non potevo fare a meno di pensare che quella magnificenza le mie povere tasche non se la sarebbero mai potuta permettere e che certamente le stanze avrebbero avuto un bagno dignitoso con un pezzo di sapone per lavarsi. Il pensiero presago della bettola era soltanto un ricordo lasciato sul sedile dell’autobus.
Ma la voce stridula e fastidiosa della ragazza col giubbino rosa tornava a ricordarmi che non c’è beatitudine senza sofferenza. Si lamentava di una promessa non mantenuta, incalzata da altre persone, in maggioranza uomini. La compagnia aveva promesso una cena, ma lì non c’era nemmeno l’ombra di un tramezzino. In cuor mio speravo non si accorgesse di una cornice nella quale c’erano le foto di tutto lo staff dell’hotel, tra le quali spiccava quella di uno chef deputato alle attenzioni culinarie di una sola Suite. Intanto con le sue dita lunghe e affusolate fendeva l’aria come una moderna Giovanna D’Arco in rosa shocking affrontando di petto, quasi si trattasse di una prima linea militare, il direttore che diceva che no, la compagnia a lui non aveva parlato di cena. Apriti cielo. Nella hall si stava facendo strada un crescente brusio; voci che si accavallavano e il dialetto che aveva rimpiazzato l’italiano senza che i receptionist capissero una sola parola.
C’è tanta forza di volontà nella stanchezza che se la scoprissimo ogni volta che cerca di attirare la nostra attenzione renderemmo il doppio nelle nostre giornate. Avevo deciso che non avrei più voluto sentire nulla e, semplicemente, avevo abbassato il mio udito appena la ragazza della reception mi aveva ficcato in mano il badge per aprire la porta della mia stanza numero 423 al secondo piano. Non volevo saperne di cibo ed improperi, si erano fatte le undici ed alle quattro mi sarei dovuta rimettere in piedi (i miei poveri piedi) e tutto quello che desideravo era togliermi gli scarponi e spellarmi sotto un getto di acqua bollente e vaporosa.

-Lei dove va?

-Al terzo piano;

- Questo è il secondo, buonanotte. A domani.

Non mi ero mai sentita così felice di vedere un letto, la potenza delle cose semplici che diamo per scontante fintanto che le abbiamo a portata di mano. Un letto matrimoniale solo per me, con tanti cuscini soffici sui quali dimenticarsi del mondo, della compagna di viaggio con le tette spigolose e della ragazza al fulmicotone col giubbino rosa.
Dopo una doccia che si era portata via nel tubo di scarico la sporcizia accumulata durante tutta una giornata e parte dei miei dolori, potevo finalmente camminare scalza, mangiucchiare qualcosa dal frigobar e guardare un pò di tv senza volume nel più totale, indisturbato e celestiale silenzio.
Presto però gli occhi erano diventati due fessure che percepivano appena l’ambiente circostante. Significava una cosa sola: mettersi a letto, coccolata dalla morbidezza dei cuscini e da pensieri che ora erano meno tragici. Non più quelli fatti sull’aereo, in preda al panico, che mi vedevano prigioniera delle carceri maltesi per un’accusa ingiusta o privata dei documenti che mi permettessero di prendere il volo. Tutto il pessimismo si era sciolto col sapone sotto l’acqua.
Mentre mi addormentavo e mi lasciavo carpire ad intermittenza da Morfeo, pensavo: tocca dormire, domani la sveglia è alle quattro. Domani me ne torno a casa.

2 commenti:

  1. Non saprei dire se più bella la foto o il racconto. Brava in entrambi i casi. E la ragazza con il giubbino rosa...
    robert

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie Robert, soprattutto per la pazienza che hai avuto a leggere questo lungo racconto. La ragazza col giubbino rosa è ancora presente nei miei incubi.

      Elimina