Un tornante dietro l’altro, una strada accidentata
che si inerpica sempre più in alto, che si ficca sempre più verso l’entroterra.
Buche grosse come crateri sulla carreggiata e rocce franate mai sgomberate. Strade a
strapiombo. Sul nulla. Servirebbe una 4x4 invece che questa mia delicata
utilitaria che trasale ad ogni fossa, arranca un poco sulle curve a gomito,
avanza circospetta per non impattare con un gregge sbucato all’improvviso dalla
boscaglia. Per un pezzo a salire si costeggia il ventre aperto dell’Amendolea,
secco, pietroso, una vena asciutta che spacca a metà i monti e segna una linea
verso il mare. Verso il largo.
Passato un piccolo ponte in muratura, la strada si
fa stretta e più ripida. Dietro resta una sgangherata fermata dell’autobus a
ridosso della montagna e un allevamento di maiali, nel greto della fiumara. Si
ha la sensazione forte della vertigine della salita e l’impressione di
inoltrarsi in una fenditura nella carne viva.
Salgo a Gallicianò, bastione grecanico
nell’entroterra della provincia reggina.
Si racconta che sia stato fondato in mezzo agli
spuntoni di roccia perché la costa faceva paura e perché ci si doveva difendere
dalle incursioni turche. Un posto in alto e tremendamente isolato. Con un colpo
d’occhio si domina tutto, dalla valle alla marina, senza ostacoli.
Il paese è piccolo come il nido che accoglie gli
sparuti pulcini di un passero. E deserto. Apparentemente. Da qui vanno via
tutti, i giovani cedono al richiamo economico della marina e delle città più
grandi. Il paese si spopola, si immiserisce. Restano in pochi. Restano i
vecchi. Silenziosi, discreti. Osservano da lontano, scrutano, salutano
cordialmente.
La loro identità l’appendono orgogliosamente alle
finestre, azzurra e bianca. Greca. Millenaria. La custodiscono nel cuore e,
ancora più in fondo, nella lingua. Sono loro, i vecchi, gli ultimi baluardi
ellenofoni di questo pezzo di Calabria.
Ne incontro una, vestita di nero, coi capelli
raccolti, le mani gonfie. Mi invita a bere un caffè, intanto mi parla del
figlio che suona in un grosso complesso folk, dei suoi parenti a Reggio e del
marito morto mentre trasportava gelati. Dei suoi malanni mi mostra le cicatrici
lungo le gambe e sembra conoscermi da anni. Ripete questi argomenti un’infinità
di volte e tante e tante altre mi invita a bere il caffè.
Prima di lasciare il paese capito per caso davanti
ai cancelli chiusi del cimitero. L’ultima immagine che mi porto via è quella di
lapidi zeppe di fiori dai colori brillanti. Tanti, tantissimi fiori. Di
plastica.
il cane della prima foto mi fa impazzire!
RispondiEliminaPensa che per paura di perdere lo scatto ho fatto due prove. Per fortuna, devo dire, perché delle due quella migliore è stata proprio questa che ho scattato per seconda. Il cagnozzo è stupendo, piccolo, tozzo e per di più guarda pure nella mia direzione! :D
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