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Todas as cartas de amor |
Cara Marisa,
se non fossi già vecchio abbastanza e con le ossa gonfie
di umidità; se non fossi miope e non accartocciassi gli occhi nel tentativo
vano di vedere qualcosa, delle lettere, un articolo, un’insegna; se non fossi
zoppo e non oscillassi su e giù camminando con lentezza. Se non fossi tutto
questo, proverei a cercarti ancora in qualcuna, nella speranza di non trovarti
mai; nella speranza di non rincontrarti mai né nelle labbra affilate, né negli
occhi piccoli; né nei gomiti aguzzi di nessuna.
Disgrazia mia. Cinquantennale supplizio.
Mi sono sembrati secoli questi anni accanto a te. La tua
presenza posticcia al mio fianco, così esuberante e piena spiegazzava la mia
magrezza. I miei silenzi pudichi contro i tuoi schiamazzi squillanti. Non c’era
verso che tu capissi che discrezione non era una parolaccia, ma una pratica
sobria di riservatezza.
Vani i miei sforzi di stabilire contatti intimi con te
che non morissero contro la mano che agitavi come per scacciare una mosca
dall’aria; come se una carezza fosse una fonte assieme di costernazione e di
peccato.
Mi ha aiutato la pazienza a scavallare la pena, ma tu
questo lo hai sempre saputo, che non ti ho mai nascosto quella insofferenza che
mi attorcigliava lo stomaco al solo sentirti parlare.
Ti ricordi quando passeggiavamo al Parco ed io non volevo
mai stare dalla parte del sole, ma ci rimanevo perché volevi starci tu?
Vedevo che ti piaceva abbronzarti anche a marzo, quando il
sole è ancora crudo e dicono non faccia bene. Tu col viso rivolto verso l’alto
ed io fasciato dentro le sciarpette di pile che compravi al mercato in quantità.
Come se avessi venti mariti malaticci di cui prenderti cura e non soltanto me.
Ti ricordi il carrello al supermercato, che prendevamo
sempre quello con una ruota che girava su se stessa senza contribuire allo
sforzo delle altre tre?
Mi sentivo io quella ruota che girava inutilmente. Sempre
appresso a te, qualunque cosa facessi, ovunque andassi. Malgrado tutto, tra gli
svolazzi dei tessuti per le tende, ai tagli sartoriali dei tuoi vestiti
monacali, le gonne fino alle caviglie, sempre; le calze coprenti, i cappellini
col tulle, le camicie con gli sbuffi sulle maniche.
E ti ricordi quanti pomeriggi in libreria in mezzo alla
polvere che donna Carmelina non voleva mai togliere perché diceva: “Accussì i libri tengono più fascino”? Io
non ci volevo andare da donna Carmelina perché avevano aperto una libreria più
grande, più moderna, piena di luce e senza polvere, in via del Corso, a due
passi da casa. E tu invece no, che povera donna Carmelina stava sola e
bisognava darle una mano d’aiuto; che se compravamo i libri da lei le davamo i
soldi senza sembrare sgarbati e ci mettevamo pure a posto con la coscienza
nostra. A me piacevano le luci al neon e l’odore di linoleum, il traffico della
gente che si urta tra gli scaffali e tu invece donna Carmelina con le novene;
donna Carmelina coi lamenti; donna Carmelina coi suoi lutti disperati; donna
Carmelina senza denti e che puzzava di aglio.
È che vi capivate al volo ed eravate all’altezza l’una
dell’altra, nel senso che eravate proprio tutte e due basse, tutte e due
tarchiate e tracagnotte, sgraziate e sfiorite, qualora foste mai state in
fiore. Io non mi ricordo mai di te fiorita. Non me lo ricordo ora e non mi
capacito di come possa averlo fatto prima. Come quella volta che sull’incarto
delle paste ti scrissi che la tua folta chioma era offuscamento d’amore, e
presto scoprii con rammarico e disillusione che in testa di capelli ne avevi
solo quattro e che il resto era solo un crudele inganno di Cupido.
E sono pure passati cinquant’anni da quel giorno in cui
decisi di prenderti in moglie, in cui scelsi deliberatamente di provare da
allora in poi e per ogni giorno della mia vita finché morte non ci ha separati,
come da contratto con Santa Romana Chiesa, la spiacevole sensazione di viverti
accanto.
Non ti vidi per quella che eri. Non ti vidi affatto e non
per colpa della miopia, nè per colpa degli occhiali che tenevano, allora e
anche oggi, con il nastro adesivo. Cornacchia sguaiata col diletto del canto
lirico, poetessa da strapazzo col vezzo degli arcaismi, mi facevi sentire
piccolo e inutile nel mio mestiere di professore di lettere. Con quale forza
imprimere nei giovani l’amore per i classici quando tra le mani mi ritrovavo le
tue stucchevoli rime baciate e dovevo decantarne le lodi in mezzo a travasi di
bile e nauseabondi conati?
Non mi accorsi nemmeno che eri strabica e pelosa e
meschina, di quella miseria d’animo che grida vendetta al cielo e intanto si
crogiola beatamente della propria arcignità di lasciarti la minestra fredda, i
calzini spaiati, le mutande bucate come se fossero fonte, queste cose, queste
angherie, di grande soddisfazione ed indescrivibile appagamento.
E che era non lo so, se non amore. Fossi stata ricca, avrei
cercato una squallida giustificazione nel mio subconscio opportunista, ma tuo
padre era ciabattino e voi eravate comunque sempre con le scarpe sfondate.
Fossi stata bella, avrei cercato sempre nel mio subconscio una ragione
libidinosa, una motivazione concupiscibile (di panza, Marisa, di panza) che mi
spiegasse l’ottundimento. Ma tu eri brutta senza scampo, che quella faccia da
civetta schifata ti si è ricomposta in una fattezza umana solo dopo che ti
avevano sistemata nel tavuto.
E io, io non ti ho mai detto niente perché sono un
signore e un pò anche perché me la sono cercata, Marisa, e mi sono zittito come
chi l’ha fatta grossa e non sa che replicare. E per compensare l’angoscia che
montava dalle angherie mi facevo crescere la barba, che non ho mai tollerato e
che mi faceva venire un prurito di peste. Sopportavo la barba e la peste per
farti un dispetto, perché dentro possiamo avere tutte le zozzerie peggiori del
mondo, ma fuori non deve spurgare nemmeno una goccia di feccia per sbaglio.
Vero, Marisa? E ti mettevo a disagio davanti alle tue amiche zitelle che
lanciavano succhi gastrici contro ogni piega di sciatteria.
Dirai che anche io sono stato crudele. Ma tu lo sei stata
di più. Molto di più.
Ecco perché continuo a cercarti: per accertarmi che tu
non sia più da nessuna parte ed in nessun’altra ancora; per acquietarmi tutto
nella serenità di non dovermi mai più imbattere in te o contro di te; nelle tue
manine grassocce che si tengono stretti gli spiccioli del resto; nei tuoi piedi
da nana che strisciano le ciabatte solo per rompere il silenzio; nella puzza di
lacca ferocemente incrostata tra i tuoi capelli.
Marisa, non volermene. Sia pace all’anima tua. E pure
alla mia.
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