La sveglia di mio padre pigolava dall'altra parte della casa. Le
quattro del mattino. Dopo una notte passata a svegliarmi ad ogni ora, tirarsi
su dal letto non era stato troppo complicato. Rimuginavo ancora sull'ultimo
racconto letto la sera prima, con la partita dell'inter in sottofondo a volume
bassissimo.
Fuori un leggero vento da cui non volevo farmi ingannare. Abitare
al terzo piano non è indicativo per stabilire se il vento è forte o no.
Doccia ben calda e tazza di latte ben freddo. Non c'era tempo per
un caffè, lo avrei preso al bar dell'aeroporto.
Per strada, solo il Kangoo azzurrino di mio padre che si
contendeva la solitudine con qualche sparuto furgone zeppo di operai
pronti per un'altra massacrante giornata di lavoro.
E io andavo a Roma, per sfruttare due biglietti che altrimenti
sarebbero andati persi. Una vacanza, se vogliamo, pianificata in fretta e
furia, ma con una precisione da piano quinquennale sovietico.
Caffé? Si, caffé. Dopo il check-in ed il torpore incipiente che mi
stava facendo ricordare, ora, la notte insonne, il caffè sarebbe stata una cosa
buona e benedetta. Il bar iniziava a stiparsi di gente, donnone vestite
volgarmente con un mix di latex e pelle nera, agghindate come matrone,
appesantite dai gioielli grossi come patacche; uomini infagottati nei loro
Loden grigio topo in tinta coi baffi e la Gazzetta ancora croccante di
tipografia sotto il braccio a sorseggiare i loro caffè con quel dito mignolo
puntato verso il cielo; valigie di ogni stazza e misura, piene come otri pronte
ad esplodere ad un minimo urto contro le cerniere. Il mio tascapane ed io
sembravamo degli sprovveduti zingari dell’aria ed occupavamo uno spazio
infinitesimo, lontano dal bancone. Forse per questo avevo bevuto il caffè tutto
d’un sorso, scottandomi la lingua e facendo in modo di andaremene di lì il più
presto possibile. I profumi carichi di sfumature pesanti delle signore
impellicciate iniziavano a saturare l’aria e renderla irrespirabile, lo stretto
andito del bar stava diventando soffocante, la sciarpa cominciava a pungermi
sul collo. Cattivo segno, presago di un nervosismo che all’inizio di una
giornata che si prospettava tranquilla ci sta proprio male. E neanche un buon
modo, quello, di gustarsi un caffè, perché il rito del primo caffè ha qualcosa
di sacro, irripetibile durante il resto della giornata. Man mano che scende
verso lo stomaco si ha la sensazione che tutto il corpo si apra verso una nuova
scoperta, si ha la percezione fisica che la mente stia più larga, lì dov’è.
Rovinarsi questo momento, potrebbe avere ricadute pesanti sul resto del giorno.
Se non si è abbastanza pronti ad evitare che ciò accada.
Fortuna che ero già tutta proiettata alle mostre che mi ero
prefissata di visitare; alle librerie che avevo deciso di saccheggiare; alle
fotografie ed ai graffiti che sicuramente avrei incontrato per strada.
-Ciao papà;
-Ciao e chiama quando arrivi;
-Si, ti chiamo. Vi chiamo.
In effetti eravamo arrivati troppo presto sull’orario di imbarco. In
attesa della chiamata avevo deciso di sfogliare una rivista trovata su un
seggiolino, girando le pagine con enorme fatica. Neanche leccarsi le punte
delle dita serviva a qualcosa. La qualità della carta era fin troppa per una
rivista da viaggio. Il contenuto era peggio che bere di corsa un caffè. Ma come
si fa a stampare certe cose e su carta patinata poi? Come dire che ti servono
del fango su un piatto di Limoge. È sempre fango. Ma su un piatto di Limoge.
Un'altra cosa che bisogna evitare accuratamente di prima mattina:
leggere spazzatura; anche solo intercettare un titolo che faccia venire il
voltastomaco, un occhiello farcito di ovvietà riprovevoli.
Stavo rischiando grosso e la voce che chiamava i passeggeri invitandoli
ad imbarcarsi correva in mio soccorso.
L’aria fresca del mattino era ancora più piacevole dopo aver
passato del tempo in una sala d’aspetto calda come una fornace e semibuia. Mi
gustavo passo dopo passo il breve tragitto verso l’aereo incurante delle
occhiatacce degli addetti alla pista.
Benvenuti su questo
volo Alitalia. Siete pregati di spegnere tutti i dispositivi elettronici e di
mantenere le cinture allacciante fino a quando l’apposito segnale verrà spento.
Obbedisco, tanto il cellulare non lo avevo nemmeno acceso e se tra
i dispositivi elettronici c’è anche il cervello, nessun problema, con la
sveglia antelucana, avrei spento anche quello.
Nonostante il sonno, però, mi accorgevo di essere sensibile ad
ogni stimolo esterno. Soprattutto, avevo avvertito precisamente quell’attimo in
cui le ruote dell’aereo si erano staccate da terra. Mi ero sentita più leggera
anche io, come se mi fossi liberata di un peso e avessi spiccato il volo da
sola.
-Posso offrirle qualcosa?
-Si, grazie. Un caffè.
La gentilezza sussiegosa dello steward si schiantava contro la
brodaglia insipida che aveva avuto la superbia di chiamare caffè. Non
importava, in quel momento non importava niente. La sensazione del bicchiere
caldo contro la mano fredda scioglieva ogni disappunto e trasmetteva a tutto il
corpo un piacevole tepore, accompagnato dentro le viscere dalla brodaglia
liofilizzata che scendeva giù giù. La sorseggiavo lentamente, per non perdermi
nulla di quegli attimi.
Dovevo andare in bagno, già consapevole che mi sarei trasformata
nella donna ragno, totalmente devota al massimo dell’equilibrio che il mio
fisico massiccio poteva permettermi per muovermi senza fracasso in
quell’abitacolo stretto.
Ero riuscita nel mio intento; nonostante la ciccia e la panza conservo
ancora una certa agilità che sta tutta nella totale e piena consapevolezza
delle mie dimensioni.
Gli steward stavano ancora armeggiando intorno ai loro carrellini,
occupando l’intera larghezza del corridoio; mi trovavo bloccata sul fondo
dell’aereo.
-Guardi, signora si metta qui, così riusciamo a passare. Vede, qui
è tutto un grande gioco di Tetris, fatto di incastri.
Avevo sorriso per cortesia e dentro di me pensavo: Speriamo solo
di non fare come i mattoncini del gioco, che precipitano dall’alto e si
schiantano gli uni sugli altri, disintegrandosi a vicenda.
Quando si viaggia in aereo, avevo scoperto, si vivono esperienze
che è un peccato farsi scappare perché tutti presi dalla smania di stare in
cielo il più breve tempo possibile con il terrore vibrante di precipitare da un
momento all’altro.
Le virate, che ai più fanno presagire la fine del mondo, sono in
realtà un’esperienza quasi mistica. Da vivere con tutta l’intensità di cui si è
capaci. Travelgum permettendo.
Una virata a destra, ti ritrovi a strapiombo sulla terra,
individuando chiaramente le increspature delle montagne, i tagli netti che le
caratterizzano. E poi vedi i campi coltivati, che sembrano tutti ordinati e ben
pettinati, di un verde intenso e policromo.
Una virata a sinistra, ti ritrovi in faccia l’orizzonte azzurro
schizzato di pesca di un giorno che sta per maturare definitivamente.
Un’inclinazione più accentuata e il sole sopra le nuvole incendia
di giallo tutta la cabina, illuminando le teste addormentate dei viaggiatori
che ti stanno davanti ed i giornali con un orecchio mollemente adagiato verso
l’interno, sulla pagina spalancata.
Dopo essere tornati in asse e guardando in basso, si ha ancora più
viva la sensazione di scivolare via sopra una bacinella piena d’acqua dove le
nuvole sembrano batuffoli di cotone che galleggiano e piano piano si
sfilacciano per dissolversi o si raggrumano in un bozzolo.
Mi gustavo tutte queste cose, facendole sciogliere dolcemente
sotto la lingua, come una galatina.
Informiamo i
signori passeggeri che tra poco atterreremo all’aereoporto di Roma. Vi
preghiamo di rimanere con le cinture allacciate, di chiudere il tavolino posto
sullo schienale davanti a voi e di riportare il vostro schienale in posizione
verticale. Vi avvertiamo, inoltre, che da ora in poi sarà vietato utilizzare
qualsiasi dispositivo elettronico per non interferire con le strumentazioni di
bordo.
Roma. La vedevo e la amavo con un trasporto folle e disumano.
Dall’alto tutto sembra più calmo e armonioso di quanto non sia da vicino.
È singolare come in determinati frangenti si possa pensare tutto e
il contrario di tutto. Volevo Roma e la vedevo simmetrica, pulita e razionale;
ma pensavo alla Metro, all’incrocio di piazza Esedra, al piazzale davanti alla
Stazione Termini e non potevo fare altro che rassegnarmi alla follia dei
clacson impazziti; all’ostinazione dei tassisti per ficcarsi in mezzo al
traffico; agli odori nauseabondi di piscio, vomito e sporcizia che si levano
dagli angoli, dalle cortecce degli alberi e da ogni filo d’erba.
Dal finestrino del treno Express che dall’aeroporto mi avrebbe
portata in città vedevo correre campagna e palazzi, palazzi e campagna in un
alternarsi che piano piano è diventato un confondersi. Fino a quando la
campagna è finita e sono rimasti soltanto in palazzi che si sono mangiati ogni
metro di terra.
La città grande, la città eterna che sembra cibarsi di se stessa
per continuare a vivere ed ingrassare. Per noi provinciali è un concetto che
non finisce mai perché abbiamo un senso più ristretto della compiutezza, che in
qualche modo ci rassicura e ci fa percepire il mondo un posto meno dispersivo.
E quando ci troviamo davanti una sconfinatezza maestosa ci sentiamo più piccoli
di quanto già non siamo ed infinitamente vulnerabili, come se il guscio dei
nostri piccoli paesi si fosse rotto e noi riuscissimo per la prima volta a
comprendere il significato profondo dell’aggettivo “grande”.
Avevo tre mostre da visitare tra storia e onirismo. Una era storia
che apparteneva ad ogni mia fibra ideale perché prima era appartenuta a mio
nonno e poi a mio padre ed ora a me che non sapevo più dove farla spurgare,
perché i tempi allora erano crudi, adesso marci senza nemmeno il tempo di
maturare.
Ero commossa da quello che vedevo, pur senza averlo vissuto mai se
non nei racconti che mi erano stati tramandati o attraverso i libri che avevo letto.
Tutto, donne, uomini, bandiere, diari scritti con calligrafie minute, pulsioni,
emozioni, slanci e pugni al vento rappresentavano quello che Pessoa era stato
in grado di sintetizzare in un’unica frase: una
sola moltitudine.
C’era così tanto di me lì dentro che per un pò avevo perso la
cognizione del tempo, tutta persa dietro fotografie che si rincorrevano,
filmati d’epoca e cimeli storici da fare accapponare la pelle.
Anche la cornice era bella: un parco incassato in mezzo a funerei
palazzoni, neri di smog e tristezza. C’erano gli alberi che ti chiudevano al
mondo barbaro ed un laghetto muto, chiazzato di muschio. Un gatto tigrato
sembrava essere il padrone di casa, per nulla spaventato dall’andirivieni
faceva gli onori come prescrive il galateo, venendo anche a sedertisi accanto
sulla panchina di legno a prendere un pò di buon sole con te.
Per raggiungere le altre due mostre avevo deciso di fare una
strada diversa se non altro per umanizzare il mio percorso e disinfettarlo un
pò dal ciarpame turistico disordinatamente affastellato qua e là. Le bancarelle
dei libri sotto gli alberi di Piazza della Repubblica erano ancora chiuse;
soltanto qualcuna stava timidamente aprendo, con lentezza messicana, mentre io
già pensavo a come affrontare la discesa di via Nazionale per raggiungere il
Palazzo delle esposizioni.
Federico la sera prima mi aveva illuminata.
-C’è una mostra sul Messico;
-Messico?! Dimmi, dimmi!
-Lo sapevo che ti saresti esaltata, per questo te l’ho detto;
Per la verità, lì di mostre sul Messico ce n’erano due. O meglio,
una era sul Messico, su Teotihuacan, la città degli dei; l’altra su un
messicano visionario, Carlos Amorales.
Davanti a me, alla biglietteria, due anziane signore facevano
tante ed inutili domande alla commessa sul punto ristoro, sullo chef, sul menu,
sulle ordinazioni. Sembrava che della mostra non potesse importargliene di
meno. Sembrava che fossero lì per lo chef e per i suoi piattucoli
scarabocchiati con qualche salsetta salata nel sapore e nel prezzo. Erano tutte
orgogliosamente fasciate nelle loro preziosissime pellicce. Ho contato solo
sulla sciarpina di una, ben dodici code di visone. Dodici animali morti, per
una sola sciarpina avvolta intorno al collo rugoso di una vecchia borghesuccia
che andava al Palazzo delle esposizioni per interessarsi del punto ristoro.
Abbastanza per fare tesoro ed innescare una girandola di riflessioni più o meno
serie, più o meno politiche, più o meno letterarie perché le signore in
questione, prima o poi, finiranno dentro qualche mio racconto.
Pagando il mio biglietto per le due mostre, già mi guardavo
intorno per capire da dove cominciare. Avevo letteralmente la bava alla bocca.
Proprio nel senso più reale del termine. Era libidine pura, senza l’onta del
peccato carnale perché pur sempre di libidine culturale si trattava. Ed è
impagabile il piacere che se ne trae, anche fisico, da queste cose. Dal
riempirsi gli occhi di cose lontane, arrivate fin lì dall’altro capo del mondo
con addosso secoli di storia, sature di significati, zuppe di messaggi che al
visitatore attento e consapevole arrivano in faccia con la violenza e
l’adesione di uno straccio bagnato.
Mi perdevo nelle stanze, in mezzo alle maschere zoomorfe ed alle
statuine antropomorfe; ai gioielli in pietra verde ed alabastro; ai braceri votivi
tra la cosmologia ed i rituali funebri. C’erano facce, che sembravano guardarti.
Con una, in particolare, mi ero incaponita destando parecchia curiosità tra gli
altri visitatori e più di un sospetto tra gli addetti alla sorveglianza.
Nell’incavo degli occhi, agli estremi opposti, mani sapienti avevano scavato
quattro piccole circonferenze, due per occhio. Se mi spostavo verso sinistra,
le circonferenze di destra sembravano definire uno sguardo torvo, lontano da
me, mentre quelle di sinistra mi puntavano dritta; se mi spostavo verso destra,
succedeva la stessa cosa, a circonferenze invertite. Ho fatto più prove,
spostandomi da sinistra a destra continuamente, stupendomi di quella meraviglia
e godendone come una bambina.
Perché il sapere, sotto sotto, non è altro che questo:
incuriosirsi e stupirsi. Sempre.
Sul fondo del gigantesco salone su cui gravavano luci basse e
soffuse per ricreare un certo ambiente cupo e quasi a contatto con il divino,
si accendeva maliziosa una tenda di fibre ottiche.
Era lì che finiva il sacro di Tláloc e Quetzalcóatl e cominciava
il profano di Carlos Amoral.
La stanza era tutta una pioggia di cocci neri e appuntiti, tenuti
sospesi da lenze legate a ganci fissati al soffitto. Drifting star si chiama l’installazione. Stella alla deriva. E
proprio qualcosa di esploso e smarrito sembravano ricercare la traccia quei
frammenti lucidi che riflettevano la luce a incandescenza della stanza. Ne ero
rimasta colpita al punto da sentirmi mormorare “che meraviglia”. Non era da me
entusiasmarmi per un’opera d’arte contemporanea, meno che meno per
un’installazione. Ma in quel preciso momento mi era tornata alla mente una cosa
che mi aveva detto un amico. Gli avevo chiesto che cosa avrebbero dovuto
rappresentare le opere di arte contemporanea e lui mi aveva dato una risposta
illuminante: non vogliono rappresentare nulla, solo trasmetterti un’emozione.
Cavolo quanto mi era tornata utile quella frase stando in piedi nella
profondità della stanza a contemplare la Stella alla deriva. E ancora di più mi
ronzava in testa andando incontro ad uno sciame impazzito di lepidotteri di
stoffa che avevano invaso, coi loro corpicini neri e leggeri, ben tre stanze.
Erano farfalle attaccate lungo tutte le pareti a formare uno sciame insieme
ordinato e confuso; quelle attaccate vicino al bocchettone per il ricircolo
dell’aria muovevano anche le ali. Me ne stavo col naso per aria a contemplare
questa onda irregolare frastagliare le pareti. Sembravano vere ed io mi
sentivo, invece, come catapultata dentro una favola: una specie di Alice nel
paese dei lepidotteri. L’installazione si chiama Black cloud, nuvola nera che di per sé dovrebbe dare un’idea
oscura, un messaggio pessimista. Invece io mi sentivo così bene lì dentro, come
se il tempo scivolasse via assieme alle ali delle farfalle e si perdesse negli
angoli morti della sala.
Cercavo di riposare un pò, seduta sulle scale davanti al Palazzo,
addentando un panino al prosciutto e ripensando ora alle farfalle, ora agli
spigoli taglienti della stella in frantumi, ora alla maschera del Signore
dell’aldilà. Mi sembrava di aver vissuto un sogno e me lo rimescolavo nello
stomaco assieme alle molliche di pane masticate per tenermelo più a lungo
possibile dentro.
La gente camminava presa da una fretta urbana a me del tutto
sconosciuta. C’erano turisti infagottati e altri che nemmeno in agosto. Li
guardavo estasiata perché quelli si portano appresso il clima di casa loro. Se
vivono in nord Europa, il nostro freddo gli fa solo il solletico ed eccoli, in
pieno gennaio in una giornata per niente clemente, calzoncini corti e
magliettina, ai piedi sandaletti di gomma ed in mano un’immancabile macchina
fotografica, per scattare foto a qualsiasi cosa che abbia un sapore italico,
anche lontano, anche stantio. Se vivono al sud, nella canicola, li trovi
intabarrati in pesanti indumenti che gli conferiscono le fattezze goffe dei
pupazzi di neve: le mani rigorosamente sigillate dentro muffole di pile; la
testa ben protetta da uno spesso cappello di lana e se non basta, anche il
paraorecchie di pelouche; sciarpa arrotolata varie volte intorno al collo fino
a che non resti soltanto un piccolo spazio per gli occhi, necessario il giusto
per non andare a sbattere contro cose e persone.
Per me che vengo dal sud doveva essere un freddo freddo, ma io
sono cicciona e mi muovevo parecchio. Non avevo neanche il tempo per rendermi
conto se stessi sentendo freddo o caldo. Il mio tempo stava per finire e mi
mancavano ancora le librerie, per fare incetta di letture e per il piacere di
passare qualche ora nel mio regno prediletto.
La libreria è un posto da frequentare con molta attenzione. Ti ci
puoi perdere dentro, scivolare tra gli scaffali dimenticandoti di ogni cosa.
Quando sei lì tutto ti incuriosisce, ogni titolo, ogni sezione. Saresti
disposto anche a leggere un giallo, nonostante non sia il tuo genere e poi ti
viene quella curiosità smaniosa di vedere cosa comprano gli altri e farti
un’idea dei loro gusti e compararli coi tuoi e vedere chi è il più impegnato
tra voi. Ci si trasforma in bambini che gattonano e spalancano gli occhi
davanti alle meraviglie del mondo appena scoperto; ci si muove lentamente per
sentire l’odore della carta, per accertarsi di leggere bene tutti i titoli.
Nonostante le liste preparate a casa, non si sa mai che qualche altro libro non
possa attirare l’attenzione. In tutto questo ci ritroviamo alla cassa con le
braccia indolenzite ed una vena di eccitazione; un’adrenalina che ci esaurisce
e ci inietta nelle vene il siero della felicità.
Fuori nel frattempo il tempo era corso via. Lo zaino che mi ero
previdentemente portata si era riempito di libri e mi faceva da zavorra, croce
e delizia.
Si erano fatte le quattro del pomeriggio, dovevo tornare. Con i
piedi piagati ed ormai incapace di produrmi in una camminata simmetrica avevo
raggiunto il binario 28 della Stazione Termini. Ci avevo messo davvero
un’eternità; così malridotta non riuscivo ad aumentare la mia andatura. Se
avessi perso il treno, mi sarebbe toccato rimanere in piedi per altri trenta
minuti ed aspettare il successivo, cosa che non contemplavo minimamente e che
con un lampo di spirito di sopravvivenza allontanavo da me provando a forzare
il passo, per il definitivo martirio dei miei poveri piedi.
Concentrandomi solo sulla costanza di buttare un piede davanti
all’altro c’ero riuscita ed avevo trovato anche un posto a sedere. Ero esausta,
mi mancava la forza per parlare, volevo solo impugnare la mia macchina
fotografica e scattare qualche foto ai graffiti lungo la linea. Roma mi passava
un’altra volta sotto gli occhi, al contrario.
Qualcosa mi disturbava. Un odore pungente, quasi nauseabondo;
sembrava uscire dalle viscere profonde di qualcosa, ma non capivo. Pensavo al
riscaldamento del vagone: se i filtri non si cambiano con continuità finiscono
per puzzare. Ma non era nemmeno quello l’odore, perché l’odore dei filtri
otturati è simile a quello della fogna. Questo era diverso, mi portava
istintivamente a sollevare il naso in cerca di aria salubre, come se si volesse
tenere la testa fuori da un barile di merda. Facendo le mie indagini con
discrezione avevo capito che non erano i filtri, né l’avventatezza di qualcuno
che avesse osato togliersi le scarpe o che avesse sudato fuori dal proprio
corpo un raccapricciante sudore acido. No, era il distinto signore seduto
davanti a me che leggeva in maniera talmente assorta il suo quotidiano da
essersi dimenticato di chiudere la bocca dalla quale usciva un tanfo di roba
morta che finiva, senza speranza di cambiargli il corso, proprio davanti al mio
naso. Non potevo nemmeno sperare che scendesse perché il treno non faceva
fermate prima di Fiumicino. L’unica cosa che mi rimaneva da fare era girarmi di
lato, verso il finestrino e portarmi la sciarpa su naso e bocca, per filtrare
l’aria fetida e respirarne di pulita.
L’aeroporto era stranamente deserto. C’era solo qualche
viaggiatore che spingeva in avanti trolley di dimensioni spropositate; altri
biondissimi e magri erano stravaccati a terra leggendo, sorseggiando una birra
o dormendo coperti coi giubotti, tutti armati da una nordica pazienza ad
aspettare il loro volo.
-Corridoio o finestrino?
-Corridoio, per favore;
-Ecco a lei, buon viaggio;
-Grazie;
C’era da aspettare ed i miei piedi non chiedevano di meglio. Col
mio carico di libri avevo passato i controlli e poi mi ero buttata su un sedile
in acciaio senza imbottitura davanti al gate.
Airmalta vi da
il benvenuto su questo volo per Reggio Calabria e Malta. Siete pregati di
riporre il bagaglio a mano sotto di voi o sulle cappelliere sopra di voi.
L’aereo non si decideva a decollare, ma il ritardo di un aereo non
è quello di un treno. Voglio dire, si sopporta meglio, se non altro perché il
viaggio dura di meno. Insomma, nessuno faceva caso al fatto che non ci si
schiodasse da terra. E poi, si sa, i viaggi al ritorno sono privi
dell’adrenalina dei viaggi all’andata e ci si rifugia in un sonno riparatore,
tra le pagine di qualche rivista o tra le righe di un libro. Così immersi,
quasi nessuno fa caso al fatto che piloti e steward, hostess e addetti alla
pista temporeggiano. A meno che non siano loro stessi a dirtelo.
Volevamo
informarvi che partiremo con circa quindici minuti di ritardo. A Reggio
Calabria c’è una pioggia molto forte e la pista non è agevole per un
atterraggio in condizioni critiche. Aspettiamo di saperne di più dalla torre di
controllo e vi faremo sapere al più presto. Ci scusiamo per il disagio.
Passa del tempo, fintanto che non te lo fanno notare non ci fai
caso, ma poi inizi a smaniare sul tuo seggiolino chiedendoti che diavolo mai ci
sia di tanto proibitivo. Due gocce d’acqua? A Reggio, poi.
Tanto valeva non perdere la calma, sarebbe andato tutto a mio
sfavore e non avevo nemmeno la forza di reagire. Bastava aspettare. Bob Marley
diceva che ogni cosa si sarebbe messa a posto. Me lo ripetevo come un mantra. E
intanto leggevo.
Accanto a me una signora che puzzava di pasta e ceci, invece,
aveva iniziato a dare segni di irrequietezza chiedendosi e chiedendo quando
saremmo partiti, arrivando addirittura a molestare un bambino sui quattro,
cinque anni che nella sua più spensierata innocenza entrava in cabina di
pilotaggio facendo proprio la sciagurata domanda alla crew.
Già non era proprio tra le mie corde da quando, saliti a bordo, mi
aveva intimato di non allacciarmi le cinture perché tanto lei sarebbe dovuta
uscire a riporre il suo cappotto nella cappelliera, e poi mi aveva ancora
chiesto di uscire per l’urgenza di andare in bagno, riversandosi addosso con
quelle sue tette dure e spigolose.
Ora, non che io sia una persona intollerante, anzi, mi considero
piuttosto flessibile ed accondiscendente; mi piace usare la diplomazia e
prediligo il dialogo, ma in quella circostanza il mio dialogo consisteva in un
ininterrotto monologo interiore nel quale riservavo parole non proprio caste e
non proprio pure all’indirizzo della biondina con gli occhiali e con la faccia
da ebete che ci teneva a precisare di lavorare in banca, ma non in una banca
qualsiasi, no, in una banca molto importante.
Volevamo
avvisarvi che tra qualche minuto partiremo, ci scusiamo per il ritardo.
Meno male, mi dicevo, Bob Marley aveva ragione.
Per quei quaranta minuti che mi separavano da casa, da una doccia
calda e da una cena sostanzionsa Scott Fritzgerald, comprato proprio quella
mattina, mi avrebbe tenuto compagnia coi suoi racconti dell’età del Jazz.
Il volo non era tranquillo, perché nessuno di noi sapeva dove
saremmo atterrati. Lo steward ci aveva ventilato l’ipotesi di atterrare a
Lamezia Terme, qualora a Reggio le condizioni fossero ulteriormente peggiorate,
poi invece ci aveva rassicurati che saremmo atterrati a Reggio. Di questa
lotteria, presa dai racconti, mi ero totalmente disinteressata. L’importante
era atterrare a casa o lì vicino.
Lamezia o Reggio, Reggio o Lamezia?
Scusateci
ancora, siamo in costante contatto con la torre di controllo di Reggio
Calabria. Da lì ci giungono notizie poco confortanti. La pista di atterraggio è
completamente allagata ed è impossibile drenare l’acqua. Le condizioni non
permettono un atterraggio sicuro. Non disponiamo dei permessi necessari per uno
scalo a Lamezia Terme. Il comandante ha deciso che questo volo atterrerà
direttamente a Malta.
Nel momento stesso in cui una notizia potrebbe scombussolarci
totalmente, ci si aspetta che intorno a noi si levino alte grida, che qualcuno
si faccia prendere dalle convulsioni. Ci si aspetta di sentire parole grosse
all’indirizzo della compagnia, dei piloti e dei poveri assistenti di volo.
Invece in quel frangente, non sentivo nulla, solo un leggero brusio. La notizia
aveva ammutolito tutti, anche il bambino che fino a poco tempo prima lanciava
gridolini indispettiti e finti piagnistei.
Scott Fritzgerald, comprato in una copia rilegata male e tagliata
peggio, mi si era impallidito tra le mani. La piacevole curiosità che si era
impadronita di me andando avanti nella lettura era scivolata sotto il sedile
per andare a perdersi tra i piedi dello steward che con il citofono in mano
iniziava ad impappinarsi nel suo italiano di maltese. Provavo compassione per
lui che ad un certo punto non sapeva come proseguire nel giustificare quella
decisione, ma con la rassegnazione che tanto, quello che doveva dire lo aveva
detto e stare lì a balbettare, forse, non lo avrebbe aiutato a gestire la
situazione. Nel frattempo non sapevo che sentimenti provare per me stessa
perché ne provavo tanti e tutti in una volta. Rimanevo con il libro tra le mani
ed il dito tra le pagine per non perdere il segno e mi guardavo attorno un pò
attonita. In un barlume di lucidità avevo sentito che una stretta allo stomaco
mi aveva fatto provare ripugnanza per Fritzgerald che ficcavo senza troppi
complimenti nel tascapane, alla rinfusa e perdendo il segno.
La doccia, la cena ed il sonno dei giusti mi ballavano davanti
facendo pernacchie, svolazzando come i lepidotteri di Amoral e lasciando
leggeri sbuffi di vapore nell’aria.
Mi stropicciavo continuamente gli occhi con le dita, sperando che
si trattasse di un’illusione e mi sforzavo con tutta l’energia che mi era
rimasta di ricacciarmi nello stomaco quel nodo che si stava impossessando della
gola. Volevo piangere.
Intanto la signorina bionda accanto a me, appena appresa la
notizia, mi aveva subito chiesto per l’ennesima volta di farla uscire per
parlottare con certi conoscenti seduti più lontano. Rientrata al suo posto
aveva iniziato a dipingere affreschi nefasti sulle conseguenze di questo
viaggio. Ci avrebbero lasciati in aeroporto fino al giorno dopo, al freddo e al
gelo; saremmo rimasti senza bere e senza mangiare; si sarebbero dimenticati di
noi. Decisamente, non conosceva Bob Marley.
Con le sue elucubrazioni tormentava l’altro passeggero, quello
vicino al finestrino, che rimaneva impassibile e felicemente rassegnato, forse
stuzzicato dall’idea di un soggiorno notturno a Malta durante il quale avrebbe
potuto fare una puntatina al Casino.
Dal canto mio avevo sempre rifiutato l’idea di andare a Malta per
una vacanza. Sarà perché d’estate è troppo scontato andarci e soprattutto
troppo affollato per i miei gusti misantropi. Vivevo quel dirottamento a fin di
bene come il compiersi di un contrappasso. Mi sarei dovuta dare una risposta
all’ostinazione di non voler visitare l’isola e me la sarei dovuta dare nel più
brutale dei modi: costretta a metterci piede, contro la mia volontà.
Uno scatafascio ed uno stridere di freni mi diceva che eravamo
arrivati. Dentro l’aeroporto piccolo e pulito non c’era quasi più nessuno a
parte noi “esuli” ed un playmobil ad altezza uomo travestito da pirata con
tanto di benda sull’occhio. I negozi erano tutti chiusi e gli addetti si sbracciavano
per tenerci a bada, come se fossimo una mandria di vacche disorientate. Sembrava
di essere precipitati in un aeroporto militare di qualche paese africano
afflitto da una guerra civile, con l’unica differenza che qui la
globalizzazione aveva piantato radici ben solide.
-Mamma?
-Sei atterrata, finalmente?
-Si mamma, sono atterrata a Malta…Mamma…mamma?!
-Come, a Malta?!
-A Malta. Ti richiamo.
Le gentili signore che ci avevano presi in consegna ci istruivano
sulla nostra sorte con la voce roca dei mastini napoletani: ci avrebbero
trasferiti in albergo per la notte; la sveglia sarebbe suonata alle quattro; il
bus ci avrebbe riportati in aereoporto alle cinque; il nostro volo sarebbe
partito alle sette.
Albergo, quattro, cinque e sette.
C’era una ragazza con un giubbino idrorepellente rosa e degli
stivali grigi di pelo ai piedi che smaniava come posseduta, dando fondo a tutti
i suoi più bassi istinti barricaderi. Se la prendeva con tutti per il mancato
atterraggio a Reggio e sbraitava con qualcuno in Italia nel suo Blackberry ton
sur ton col giubbino, trascinandosi dietro una valigia griffata alta quanto
lei. Sbraitava in aereoporto, sbraitava sul bus e sbraitava anche nella hall
dell’albergo senza la possibilità che qualcuno le contrapponesse degli
argomenti definitivi per zittirla una volta per tutte. Avrei voluto che si
trovasse in uno di quei reality show in cui bisogna televotare per eliminare un
concorrente particolarmente antipatico. Invece era lì, con il suo verso di
quaglietta a sputare veleno su tutti, facendomi vergognare di appartenere al
genere umano ed acuendo la mia già critica misantropia.
Fuori era una nottata fredda, con un vento costante, non troppo
forte, ma gelido. La Valletta piombata nel buio interrotto da lampioni giallo
aranciato mi ricordava Eastbourne nell’East Sussex con le sue stradine ordinate
ed i semafori che funzionavano anche a tarda notte. Piccoli cottage bianchi,
separati dalla strada con un piccolo cancello basso mi ricordavano che Malta è
stata colonia inglese e quell’ordine urbano, quella simmetria logica ne erano
esattamente il frutto. Ma Malta è stata anche molto altro percui il rigore
britannico non è così rigido. Molte cose mi facevano sospettare un mix niente
affatto da disprezzare. Vuoi vedere che quasi quasi mi piace, pensavo.
Persa nei miei pensieri ed attenta a sfruttare i pochi sprazzi di
luce nel buio per vedere qualcosa non avevo fatto caso di essere arrivati in
albergo. Mi risuonavano ancora in testa le speranze di una ragazza con cui avevo
iniziato a parlare in aeroporto, che con dolcezza si augurava che il bagno,
almeno quello, non fosse in comune e si preoccupava che lì dove ci avrebbero
portati, almeno ci fosse stato un pezzo di sapone per lavarsi.
Benvenuti al Corinthia Palace Hotel. Cinque stelle gold anticipate
dalla piccola riproduzione di un giardino alla francese con una fontana
zampillante al centro accanto alla quale si sviluppavano due morbidi corridoi
di aiuole perfettamente tagliate che finivano sotto un patio porticato,
l’entrata dell’albergo.
Non potevo fare a meno di pensare che quella magnificenza le mie
povere tasche non se la sarebbero mai potuta permettere e che certamente le
stanze avrebbero avuto un bagno dignitoso con un pezzo di sapone per lavarsi.
Il pensiero presago della bettola era soltanto un ricordo lasciato sul sedile
dell’autobus.
Ma la voce stridula e fastidiosa della ragazza col giubbino rosa
tornava a ricordarmi che non c’è beatitudine senza sofferenza. Si lamentava di
una promessa non mantenuta, incalzata da altre persone, in maggioranza uomini.
La compagnia aveva promesso una cena, ma lì non c’era nemmeno l’ombra di un
tramezzino. In cuor mio speravo non si accorgesse di una cornice nella quale
c’erano le foto di tutto lo staff dell’hotel, tra le quali spiccava quella di
uno chef deputato alle attenzioni culinarie di una sola Suite. Intanto con le
sue dita lunghe e affusolate fendeva l’aria come una moderna Giovanna D’Arco in
rosa shocking affrontando di petto, quasi si trattasse di una prima linea
militare, il direttore che diceva che no, la compagnia a lui non aveva parlato
di cena. Apriti cielo. Nella hall si stava facendo strada un crescente brusio;
voci che si accavallavano e il dialetto che aveva rimpiazzato l’italiano senza che
i receptionist capissero una sola parola.
C’è tanta forza di volontà nella stanchezza che se la scoprissimo
ogni volta che cerca di attirare la nostra attenzione renderemmo il doppio
nelle nostre giornate. Avevo deciso che non avrei più voluto sentire nulla e,
semplicemente, avevo abbassato il mio udito appena la ragazza della reception
mi aveva ficcato in mano il badge per aprire la porta della mia stanza numero
423 al secondo piano. Non volevo saperne di cibo ed improperi, si erano fatte
le undici ed alle quattro mi sarei dovuta rimettere in piedi (i miei poveri
piedi) e tutto quello che desideravo era togliermi gli scarponi e spellarmi
sotto un getto di acqua bollente e vaporosa.
-Lei dove va?
-Al terzo piano;
- Questo è il secondo, buonanotte. A domani.
Non mi ero mai sentita così felice di vedere un letto, la potenza
delle cose semplici che diamo per scontante fintanto che le abbiamo a portata
di mano. Un letto matrimoniale solo per me, con tanti cuscini soffici sui quali
dimenticarsi del mondo, della compagna di viaggio con le tette spigolose e della
ragazza al fulmicotone col giubbino rosa.
Dopo una doccia che si era portata via nel tubo di scarico la
sporcizia accumulata durante tutta una giornata e parte dei miei dolori, potevo
finalmente camminare scalza, mangiucchiare qualcosa dal frigobar e guardare un
pò di tv senza volume nel più totale, indisturbato e celestiale silenzio.
Presto però gli occhi erano diventati due fessure che percepivano
appena l’ambiente circostante. Significava una cosa sola: mettersi a letto,
coccolata dalla morbidezza dei cuscini e da pensieri che ora erano meno
tragici. Non più quelli fatti sull’aereo, in preda al panico, che mi vedevano
prigioniera delle carceri maltesi per un’accusa ingiusta o privata dei
documenti che mi permettessero di prendere il volo. Tutto il pessimismo si era
sciolto col sapone sotto l’acqua.
Mentre mi addormentavo e mi lasciavo carpire ad intermittenza da
Morfeo, pensavo: tocca dormire, domani la sveglia è alle quattro. Domani me ne
torno a casa.
Non saprei dire se più bella la foto o il racconto. Brava in entrambi i casi. E la ragazza con il giubbino rosa...
RispondiEliminarobert
Grazie Robert, soprattutto per la pazienza che hai avuto a leggere questo lungo racconto. La ragazza col giubbino rosa è ancora presente nei miei incubi.
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